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Il signor poeta: Salvatore Di Giacomo

Una biografia romanzata del più aulico cantore della napoletanità


Con Salvatore Di Giacomo comincia a delinearsi la canzone napoletana d’autore. Il “signor poeta”, come lui stesso amava definirsi - e non è chiaro se lo facesse con tono supponente o scherzoso - ebbe come collaboratori musicisti di grande levatura quali Mario Pasquale Costa (che sarà il suo preferito), Francesco Paolo Tosti, Enrico De Leva, Vincenzo Valente.
Più di un critico ha sostenuto che il dialetto di Di Giacomo è napoletano fino a un certo punto o che è palesemente arcaico o che addirittura non è affatto napoletano. E’ stato osservato che nella sua intera produzione la parola “Napoli” ricorre solo tre volte. I maggiori studiosi dell’opera poetica novellistica e teatrale di Di Giacomo furono non napoletani e la sua produzione non è patrimonio locale bensì universale. Francesco Flora scrive: “Il napoletano di Di Giacomo ha accresciuto di una nuova dimensione la napoletanità e l’ha consegnata ai lettori d’Italia e del mondo”.  E si pensi che il Nostro fu contemporaneo di poeti come Carducci, Pascoli e D’Annunzio. Solo dopo la raccolta di Ariette e sunette (1898), la critica, tramite un saggio rivelatore di Benedetto Croce, troverà in Di Giacomo, ormai libero da formule naturalistiche, una delle maggiori espressioni liriche dell’epoca.
Salvatore Di Giacomo era nato il 12 marzo 1860 da Francesco Saverio, medico, e da Patrizia Buongiorno. Dopo aver seguito gli studi classici, tentò di calcare le orme paterne iscrivendosi alla facoltà di Medicina e Chirurgia. Arrivò fino al terzo anno di università. Un giorno un bidello, certo Setaccio, lasciò cadere a terra, per un movimento falso, un recipiente contenente brandelli di membra umane su cui si erano esercitati i bisturi degli studenti; il macabro episodio impressionò talmente Di Giacomo da indurlo a rinunciare alla laurea. Il mancato dottore, grazie all’amicizia con uno dei migliori giornalisti del tempo, Martino Cafiero, venne assunto al Corriere del Mattino e fu proprio grazie a questo giornale che il suo destino subì una importante svolta..
Lo stesso Martino Cafiero nel luglio 1882 incontra il non ancora celebre Mario Costa e gli chiede di musicare  una poesia scritta da Di Giacomo, nella speranza di poter sovrastare il successo raggiunto due anni prima dalla canzone Funiculì funiculà. Con l’aggraziata musica di Costa, Nannì - questo il titolo della poesia in questione - venne eseguita ai primi di settembre nella villa comunale, già al tempo dotata di una splendida “cassa armonica”, opera dell’architetto Enrico Alvino. Il pubblico mostrò non gradire la canzone: ad ogni strofa, in coro, la folla scandiva la parola “amen”. Di Giacomo si allontanò avvilito. Tuttavia, appena un mese dopo, Nannì era entusiasticamente sulla bocca di tutti i napoletani.
Il successo inebriò Di Giacomo e lo indusse a fare a gomitate nel mondo del giornalismo. In quello stesso anno lo troviamo al Pro Patria, giornale irredentista e repubblicano diretto da Arcangelo Ghisleri, e quindi al Pungolo che era allora la più importante testata napoletana. Per raggiungere gli uffici del Pungolo, Di Giacomo doveva, da via Toledo, svoltare per via Latilla. Lì sorgeva il banco di Carolina, una bruna venditrice di bibite con la quale il poeta, consapevole della poca fortuna che aveva con le donne, soleva scambiare qulche timida chiacchiera. Anche la donna amata da Mario Costa si chiamava Carolina, figlia del notissimo fotografo Sommer. Insieme composero una canzone dal titolo appunto Carulì, del 1885, edita da Santoianni.
Fu molto chiacchierata la sua relazione con la celebre cantante napoletana Emilia Persico che incantò, con la sua chioma dorata e i suoi occhi azzurri, il casto poeta. Emilia Persico era una delle numerose “sciantose” - da "chanteuses" - che popolavano la Napoli della Belle Epoque di fine Ottocento, quando la città, appena flagellata dal colera, viveva una stagione di divertimenti nei famosi café-chantant, dove si cercava rifugio dai problemi e dall’incertezza del domani, tra spettacoli fatti di canzoni, balletti e piccole rappresentazioni teatrali. Lo stesso Salvatore Di Giacomo si chiedeva cosa spingesse queste ragazze del popolo ad una scelta piena di pericoli e delusioni: "Ma che cosa dunque sospinge sulle libere scene del Café Chantant queste sciagurate di cui la numerosa e recentissima schiera è addirittura una germinazione di plebe? Quale desiderio, quale necessità solleva il volgo fino a fargli raggiungere luoghi ove prima l'arte addusse più aristocratici, più adatti elementi alla sua manifestazione e alla sua parola?". Una delle ragioni principali era sicuramente la necessità di sfuggire alla miseria, oltre che il sogno di una carriera artistica, a volte ingenuamente vagheggiata. Successivamente questa figura acquistò maggiore prestigio e professionalità, tanto da attrarre uomini di cultura e artisti, divenendo l’antenata dell’odierna soubrette.
Non trascurando una fervida attività di novelliere e di erudito, e passando dal Pungolo al Gazzettino, Di Giacomo si avviava verso la celebrità. Erano di moda gli abbigliamenti alla Di Giacomo, costituiti da giacca a righe con bavero alzato, da cappello a cencio e canna di bambù. Ma sorsero anche gli oppositori: contro le innovazioni del giovane poeta che dava al dialetto alta dignità, si lanciarono tutti i conformisti di Napoli. L’Accademia dei Filopatridi, capeggiata da Emmanuele Rocco, attraverso il giornaletto Spassatiempo, accusò Di Giacomo di mettere troppa dolcezza nei versi, mentre il popolo napoletano - si sosteneva - era più rumoroso, più vivace, più sanguigno. Per rispondere a questi e ad altri addebiti, nel 1886 Di Giacomo pubblicò Funneco verde, una raccolta di scenette poetiche ambientate nei vicoli napoletani: un autentico capolavoro, il gioiello forse più prezioso della sua produzione.
Nello stesso tempo si occupò di teatro: ‘O voto, scritto in collaborazione con Cognetti; A San Francisco; altra opera importante fu 'O mese mariano, tratta dalla novella "Senza vederlo", portata poi in televisione con l'interpretazione di Titina De Filippo; Assunta Spina, probabilmente il suo dramma più noto, tratto dalla sua novella omonima, ripetutamente rappresentato e poi adattato per il cinema e per la televisione; Quand l’amour meurt e l’Abbè Pèru. Non voltò giammai le spalle alla canzone.
Nel 1887 divenne celebre ‘A ritirata, musicata da Costa ed edita dalla Società Musicale Napoletana. Per i versi di ‘A ritirata , Salvatore Di Giacomo si ispirò a un doloroso fatto d’armi. Nel gennaio 1887 i seicento soldati italiani che presidiavano Dogali, un villaggio fra Asmara e Massaua, furono assaliti da 10.000 guerriglieri di Ras Alulà e, dopo un’epica resistenza  si videro costretti a ritirarsi: i superstiti furono solo ottanta. La musica di Mario Costa di ‘A ritirata venne eseguita per la prima volta nella piazza del Plebiscito dalla fanfara dei bersaglieri, alla presenza del generale Avogadro. Da allora, tutti i contingenti dei soldati italiani che s’imbarcavano per l’Africa vennero accompagnati al porto dalla fanfara che suonava ‘A ritirata. Molte madri e fidanzate abbracciarono per l’ultima volta i loro cari mentre una fanfara eseguiva la canzone di Di Giacomo e Costa.
Dopo una non lunga permanenza al Corriere di Napoli di Eduardo Scarfoglio e Matilde Serao, Di Giacomo abbandonò il giornalismo militante e andò a dirigere, senza nomina ufficiale, la biblioteca Lucchesi Palli, annessa a quella Nazionale. Tuttora gli schedari di quella biblioteca sono ricoperti della sua calligrafia, minuta e chiara.
Fu lì, al cospetto di quei vecchi libri, che un giorno del 1905, Salvatore Di Giacomo, diventato quasi un divo per il successo riscosso dalla commedia Assunta Spina, vide avvicinarsi al suo tavolo una ragazza bella e disinvolta. Figlia di un magistrato di Nocera Inferiore, Elisa Avigliano doveva approntare, per la sua imminente laurea, una tesi sulla poesia, manco a dirlo, di Salvatore Di Giacomo. I due si innamorarono e fu lei a comunicarglielo per via epistolare. L’idillio, castissimo, durò tredici anni ed è documentato in un libro pubblicato nel 1975, dal titolo Lettere ad Elisa: si sposarono il 20 febbraio 1916.
Nel  1924, Di Giacomo fu indicato da Mussolini per la nomina a senatore, ma la sua candidatura fu bocciata dalla camera alta. “Piedigrotta in Senato”,  ironizzarono taluni invidiosi. Per il poeta fu un colpo durissimo, da cui si riprese solo quando fu chiamato a far parte dell’Accademia d’Italia nel 1929. Non partecipò mai alle sedute di quell’organismo perché non era in condizioni di acquistarne la divisa.
Il più grande poeta napoletano morì, dopo un attacco di uricemia, la sera del 4 aprile 1934. Alle esequie, la banda lo accompagnò suonando la canzone ‘A Marechiare.

 

 

 

 

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