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Una lettura dell’arte in chiave neuro-biologica. La difficoltà della scienza a spiegare  la “mano magica” dell’artista e i  fenomeni  del  talento, del bello e del capolavoro (I parte)

 

La ‘neuro-estetica’: diamo la parola anche agli artisti!

 

di  Flora Zarola (*)

 

La recente introduzione dello studio sotto il profilo biologico di una delle più antiche forme di espressione della specie umana, l’arte, ha portato alla creazione di una disciplina chiamata “neuroestetica”.  Vari sono stati gli approcci ‘scientifici’ all’arte, alcuni dei quali rispettabilissimi ed anche di gradevole fruizione. La maggior parte di essi pur tuttavia restano a mio avviso solo dei tentativi per svariate motivazioni. Citerò a tale proposito solo quelli effettuati da personaggi noti ai più nel mondo delle neuroscienze: ad esempio il grande studioso delle aree visive del cervello Semir Zeki, che ha dedicato anche interi testi all’argomento, tra cui  il piu noto è senza dubbio “Arte e cervello, la visione dall’interno”, in cui effettua una dettagliata descrizione della neurofisiologia della visione. Nonostante l’indiscutibile livello scientifico dell’argomento e l’indubbia passione dello studioso per l’arte, il risultato è poco convincente. Infatti, se da un lato la ‘cognitivita’ dell’arte è un fenomeno molto complesso non riducibile alla semplice percezione-elaborazione dello stimolo visivo nelle aree primarie e secondarie (percezione delle linee e loro orientamento) - nè tantomeno accostabile soltanto alle linee di Mondrian - dall’altro vengono in questa analisi completamente ignorati aspetti che ritengo personalmente importantissimi nella neurobiologia dell’arte, per esempio dalla componente percettiva alla componente ‘attiva’ di chi produce opere d’arte, e conseguentemente il complesso neurofisiologico motorio, ovvero l’attività motoria finalistica suscettibile di produrre un valore estetico (sia esso un oggetto o un atto come suonare, cantare, recitare).

 Altri autori si rifanno alla patologia di alcuni artisti brancolando in cerca di  un ‘aggancio’ all’aspetto medico-scientifico: la follia-depressione di alcuni artisti, o, più recentemente, il citatissimo De Chirico e la presunta trasposizione dell’aura emicranica nelle sue opere: tutto molto interessante, ma anche qui sorgono delle (troppo) facili obiezioni: non tutti gli artisti sono malati, l’espressione artistica non è necessariamente generata da una ‘patologia’ o meglio non può una patologia essere in assoluto e sempre la fonte dell’arte, ci deve essere “qualcos’altro”. Io dico il talento. Appare pertanto riduttivo argomentare – riguardo alla ‘neuro-estetica’- facendo riferimento alle singole situazioni aneddotiche legate a questo o quell’artista (le linee di Mondrian, l’emicrania di De Chirico), mentre è bensì evidente che ciò che viene ritenuto ‘scientifico’ deve poter passare quantomeno dall’osservazione ripetuta alla generalizzazione. Ma, senza impantanarsi nella epistemologia della scienza,  viene naturale porsi la seguente domanda:  cosa fa di un individuo, malato o sano, un artista? Risposta: “il talento”. Dunque, se vogliamo proprio affrontare una delle connotazioni più antiche (pensiamo ai graffiti preistorici e ai manufatti ‘estetici’ dell’era pre-verbale dei nostri progenitori) e diffuse del genere umano, l’espressione-fruizione artistica da un punto di vista ‘scientifico’ , dobbiamo forse per prima cosa centrare il problema e chiederci cosa sia: 1) il talento; 2) la possibilità di percepire e fruire di un prodotto come ‘opera d’arte’. Questo ci porta, in linea con le neuroscienze, ad una impostazione completamente diversa, che, seppure inizialmente in modo schematico, tenga conto di una serie di ‘variabili’ fondamentali suscettibili ciascuna di essere oggetto di studio: la variabile sensoriale percettiva (visiva, uditiva, cenestesica), la variabile motoria (già citate), la variabile ‘interna’ (capacità di elaborazione cognitiva in senso ‘estetico’ ) .

Quest’ultima è  a sua volta costituita da: a) una componente sovrastrutturale legata a fattori socio-culturali e di costume; b) una componente legata all’aspetto emozionale ed intuitivo, che costituisce la condicio sine qua non che permette di definire come  tale un’opera d’arte;  c) una ‘spinta’ – anche motivazionale - definibile con limiti ‘sfumati’ in grado di ‘guidare’ il soggetto che crea l’arte – e si capirà in seguito perche.

Da quanto detto si deduce che la materia è molto complessa e va affrontata ‘un pezzo alla volta’ per non incorrere in confusione e rozzo empirismo; solo dopo studi che affrontino i suddetti aspetti chi vorra cimentarsi potra iniziare a parlare di arte in senso neuro-scientifico. Inoltre lo studio deve avvalersi di un contributo fondamentale finora completamente ignorato: quello dei primi diretti interessati, gli artisti, dalla cui testimonianza e presenza ‘biologica’ non si puo prescindere: cosa prova l’artista in quanto tale? Come incide la sua identità di artista che si manifesta in modo totalmente personale attraverso il suo linguaggio (linguaggio dell’arte)?

 A tale proposito riporto la mia personale esperienza: il contatto con un artista, il maestro Vanni Rinaldi,  è stata la sorgente fondamentale di illuminazione su alcuni punti, quali la definizione del concetto di arte ed alcuni  suoi requisiti: la sua natura di  ‘linguaggio’ (linguaggio non verbale, in grado di comunicare con l’emisfero cerebrale destro) che è simultaneamente il vero ‘contenuto’ - trasceso quello semantico - proprio  delle opere di un particolare artista, attraverso il quale egli (ella) è riconoscibile (cifra stilistica);  la capacità di suscitare una emozione immediata in chi osserva il prodotto artistico (proprio in quanto il suo linguaggio non verbale ‘stimola’ l’emisfero cerebrale destro!) e solo in seconda battuta ridefinibile (spesso non completamente) con il linguaggio verbale.

Senza avere la pretesa di esaurire in così breve spazio l’argomento, desidero fare un cenno ad elementi che possono essere oggetto e suggerimento di eventuali studi più approfonditi: ad esempio il fatto che l’arte, come la psicoterapia (ma anche l’attività fisica)  stimolano l’emisfero cerebrale destro (incrementando i livelli di BDNF?) ed esercitano un’ azione antidepressiva; inoltre, - oltre a misurare le variazioni di BDNF - sarebbe interessante osservare come l’esecuzione-fruizione dell’arte influiscono  sul grado di attivazione cerebrale o sulle variazioni morfometriche ed anatomiche strutturali dei due emisferi cerebrali, cosa che l’attuale tecnologia ci consente di fare (PET, RM funzionale, ecc).

Ma, tornando  a quanto introdotto sin dall’inizio, è interessante porsi una domanda come punto di partenza: che cos’è la “cognizione dell’estetica”? Cosa ha un valore estetico? Come viene concepito ciò che ha valore estetico ed artistico?

Abbiamo visto che per definizione ciò che viene percepito come opera d’arte (poniamo la Monna Lisa) è un prodotto a valenza estetica in grado di suscitare immediatamente un’emozione o comunque una sensazione intuitiva e poco definibile (emisfero cerebrale destro). Tale impressione, pur persistendo, viene successivamente arricchita da un ‘ragionamento logico’ (perche mi piace-non mi piace, cosa vuole dire l’autore, chi è il soggetto,  se il modo di rappresentare l’arte in quell’epoca storica sono di mio gusto ecc.).

Partendo da questa considerazione, facciamo un passo avanti. Esistono in realtà due ‘chiavi’ che concorrono all’inquadramento dell’opera come oggetto estetico: un aspetto ‘intuitivo-emozionale’ di fondamentale importanza, quello che, se opportunamente ‘centrato’ dal talento dell’artista, può astrarre l’opera d’arte dall’epoca e dal contesto storico e renderla capolavoro assoluto nello spazio-tempo, svincolandola dagli aspetti socio-culturali e di costume della sua epoca;  un aspettocontingente sociale’ legato al momento storico. Infatti la concezione estetica è profondamente mutata nel corso dei secoli e nella storia umana, basandosi da un lato sull’esigenza degli artisti di esprimere il proprio tempo, dall’altro sull’urgenza di innovazione, rottura rispetto al passato, di cambiamento radicale propria del fare arte ad alto livello. Ciò comporta, per rimanere agganciati all’aspetto neurofisiologico, l’intervento di una componente ‘corticale’ all’attività artistica che è data dal contributo culturale, di conoscenza (vedi ad esempio in epoca contemporanea gli allestimenti alla Cattelan, la ‘action painting’, ecc.), con ampia variabilità di gusto da individuo a individuo e da società a società. Ciò nonostante esiste, all’opposto, una sorta di ‘imprinting’ o meglio una componente innata che consente di riconoscere e condividere un archetipo estetico universale (nel tempo e nello spazio) e che rende universalmente “capolavoro” nell’immaginario collettivo alcuni dei prodotti estetici fioriti nella storia umana: la Nike di Samotracia, la Gioconda, la Cappella Sistina, la V di Beethoven. Evidentemente a tale riconoscimento ed universalità contribuiscono componenti archetipiche neurobiologiche innate, probabilmente generate in  parti del cervello più “arcaiche” ed intuitive, legate al riconoscimento istintivo del ”bello”. A tale proposito è interessante un esperimento condotto da alcuni scienziati con lo stereoscopio, strumento che consente di esporre alla vista contemporaneamente ma separatamente due volti, di cui uno ritenuto ‘bello’ e uno ‘non bello’: si verifica fisiologicamente una sorta di ‘estinzione’ per cui il cervello sceglie di percepire a livello conscio il volto ‘bello’ escludendo quello non bello. Pertanto la percezione del ‘bello’ è una preferenza predeterminata biologicamente, o meglio, rovesciando ‘scientificamente’ il discorso, la concezione del bello a livello cognitivo e conoscitivo è pre-programmata neurofisiologicamente (con lenti mutamenti genetici evolutivi?) secondo certi canoni in media riconosciuti dal cervello come ‘bello’. Tale studio ci permette di fare riferimento per analogia al riconoscimento universale del valore estetico di alcune opere d’arte. (continua)

 

                                           (*) Neurologa Ambulatoriale e Pittrice, Roma

 

 

 

 

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