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I rapporti tra emicrania e psicoanalisi in una storia raccontata dalla paziente stessa

 

Il caso della Sig.na M.

ovvero dell'emicrania scomparsa

 

di Alfonso Leo (*)

 

Il caso clinico che esporrò di seguito è sicuramente rappresentativo del mio percorso professionale, contraddistinto dal passaggio dalla neurofarmacologia alla psicoanalisi, e del mio essere, come una volta disse il mio analista, “alieno”, ovvero psicoanalista tra i neurologi e neurologo tra gli psicoanalisti.

Per la trattazione di questo caso mi servirò di un articolo scritto dalla paziente stessa, su mia richiesta, per un progetto di lavoro riguardante i rapporti tra emicrania e psicoanalisi, progetto che ha visto un primo abbozzo nella mia tesi di specializzazione in psicoanalisi, ma che dovrebbe avere compimento in una trattazione più articolata da svolgere in collaborazione con un collega, forti della nostra comune esperienza più che trentennale nella cura della cefalea.

 

L’inizio

M. è una ragazza di 26 anni, studentessa di scienze politiche, che si rivolge a me per un problema di mal di testa. E’ affetta da emicrania da “sempre” e ha tentato diverse cure, ma lasciamo a Lei la parola:

 

Non pensavo dovessi fare uno sforzo così grande per ritornare indietro con la memoria. Ci sono delle cose che ti fanno stare così male da spingerti a pensare ”questo non lo dimenticherò mai”, e invece ho impiegato un po’ di tempo per ricordare cosa vuol dire convivere ogni singolo giorno con il mal di testa e se qualcuno mi chiedesse quanto tempo è passato da allora o quanto tempo io sia stata in balia di quei sintomi non saprei cosa rispondere.

Passi giorni, mesi, nel mio caso anni, in una condizione di malessere e non riesci più a quantificarlo? Sono la prima ad esserne stupita.

Quando mi è stato proposto di mettere nero su bianco la mia esperienza ne sono stata entusiasta; la sera stessa, prima di addormentarmi, ho cercato di programmare quale sarebbe stato il mio “lavoro”, ma nella mia mente non ho trovato nulla.

Possibile che avessi davvero cancellato tutto quel dolore e che non mi fosse rimasto nulla di quell’esperienza assurda? Così ho chiuso gli occhi e ho cercato di ricordare e di riportare alla mente l’immagine di me stessa distesa sul letto in completa oscurità ed isolata da tutto e tutti, io ed il mio mal di testa. Ma rimediato solo immagini, nessuna emozione riemersa.

Mi sono ritrovata per l’ennesima volta di fronte al il mio solito problema: il mio bisogno di esercitare sempre il controllo su ogni situazione; così ho deciso di scrivere di getto e, proprio in un momento di estrema vulnerabilità, raccontare quella parte di vita non mi è sembrato più così complicato.

Non ricordo esattamente quando sia iniziato tutto e forse non è nemmeno così importante individuare il momento, ricordo però con grande chiarezza la sensazione di spossatezza che precedeva ogni attacco di cefalea.

La prima “vittima” era l’umore: come cambiava il mio stato d’animo, anche senza motivi apparenti, il passo successivo era irrimediabilmente un forte dolore alla base del collo che lentamente mi invadeva fino a raggiungere le tempie.

Inizialmente la frequenza degli attacchi non era elevata; capitava che il mal di testa fosse passeggero, solo poche ore e poi bastava una telefonata con un amico, una risata e tutto sembrava passato.

Di contro, a volte era sufficiente un litigio tra i miei genitori o una frase poco carina pronunciata dal mio ragazzo di allora per farmi piombare in quello stato di malessere. Sentire mia madre lamentarsi costantemente del suo rapporto con papà era l’esca preferita della mia cefalea, mai una volta in cui non abboccasse.

 

La cefalea come soluzione

 La cefalea può essere la soluzione ai problemi di relazione. Nel corso delle sedute capita che la paziente dica “non so come leggere questo!” alla ripresa della cefalea; impara che non è il sintomo importante ma la percezione che si ha di esso e l’uso che inconsciamente se ne fa.

 

Come può un sintomo così fastidioso e odiato proteggerti da qualcosa o qualcuno? Perchè è questo che quel dolore mi impediva di fare: sentire altro dolore ed evitare le situazioni di difficoltà.

La sofferenza ti crea un alibi per alienarti dal resto del mondo, ti evita di vivere una realtà che giorno dopo giorno ti consuma l’anima.

Guardare la tua vita attraverso un velo non è piacevole, ma ci si abitua anche a questo.

Ciò che davvero mi faceva stare male non era il dolore in sè, ma tutte le percezioni che gli facevano da corollario.

Porterò sempre con me la sensazione di sonnolenza che avvertivo poco prima di cadere nel vortice di quella sofferenza sorda e martellante. Ho ancora così tanta paura di quella particolare sensazione di apatia che ancora oggi, quando mi capita di sentirmi meno attiva del solito, suona, immediato, un campanello d’allarme.

 

L’incontro con l’analisi

 Mi ci sono voluti anni di convivenza forzata con la cefalea per decidermi un giorno ad ascoltare il consiglio di mia cugina e rivolgermi ad uno specialista. L’idea di parlare con un altro dottore non mi andava a genio, ma un neurologo, pensai, poteva darmi la cura più indicata.

Non so bene cosa mi aspettassi da quella chiacchierata, forse una pozione miracolosa o un nuovo e più efficace ciclo di interventi sulla cervicale, ma mai mi sarei aspettata di essere messa davanti ad un bivio.

Dopo aver descritto vagamente e nemmeno con tanta convinzione i miei soliti sintomi, il dottore mi chiese di parlargli un po’ di me, della mia vita, del mio futuro.

Provai imbarazzo di fronte a quella richiesta che mi sembrò così assurda e fuori luogo: qual era il nesso tra il malessere che quell’uomo doveva far svanire e il mio Io?

Mi disse che c’erano due strade possibili da percorrere, quella farmacologica e quella psicoterapeutica.

“Cosa vuol dire terapeutica? ”,  pensai. Le domande che mi aveva fatto non mi erano piaciute e quel termine non mi prometteva nulla di buono.

Presi la decisione per me più semplice e risolutiva: provare con i farmaci, stavolta specifici.

Per un’intera estate assunsi le gocce di Laroxyl che allora mi sembrarono una vera manna dal cielo. Quel farmaco era in grado di creare lo stesso schermo tra me e il mondo senza dover ricorrere al mal di testa. Tutto mi scivolava addosso, non accusavo nulla, nè i malumori delle persone che mi erano intorno, nè il fastidio di dover stare accanto a persone che mi gettavano continuamente in quel baratro da cui solo il mal di testa riusciva a farmi risalire. Lo stesso effetto benefico, ma senza le sue controindicazioni.

Questo per due o tre mesi. Pensavo davvero di aver trovato la mia pozione magica, in realtà, come ho capito solo molto tempo dopo, se hai in circolo qualcosa che non va, tappi una falla e se ne riapre una seconda da un’altra parte.

 

Non si puo' scappare da se stessi

Finita la cura di Laroxyl e dopo aver detto addio al mal di testa, o così credevo, ecco un altro sintomo, addirittura peggiore, che mi ha obbligata a rivolgermi di nuovo al mio terapista e ad intraprendere un percorso diverso, lungo ma soprattutto doloroso. Non esistono scorciatoie in questi casi, nè scappatoie, nè palliativi che possano alleggerirti il peso; non si può scappare da se stessi.

Ci sono volute non so quante sedute di analisi prima di venire a capo dei miei mal di testa, anzi, a volte erano le stesse sedute a scatenarmelo e, dopo tanti anni, talvolta mi provocano ancora lo stesso effetto. 

Quando mi sono trovata faccia a faccia con le mie paure, il mio passato, le mie nevrosi, ho deciso che peggio di così non poteva andare, che quello era il prezzo da pagare per non ritornare nel vortice del mal di testa o di altri sintomi alternativi. Ma quando dopo lacrime versate, rapporti ricuciti ed altri recisi mi sono trovata di nuovo distesa sul letto con lo stesso problema, c’è mancato poco che la testa non la sbattessi al muro.

 

Saperci fare col sintomo

Il tempo, le sedute, i malumori finalmente interpretati mi hanno insegnato che il mal di testa puo essere un alleato, o meglio, una specie di campanello d’allarme che attiva la parte piu intima di me stessa.

Affermare che con il mal di testa si può convivere è forse esagerato, non deve essere necessariamente un nostro compagno di vita, ma imparare a decifrarlo, a capire perchè arriva e sapere come combatterlo rappresentano una medicina migliore di qualsiasi ansiolitico o antidepressivo.

Il mal di testa mi ha bloccato parte della vita per alcuni anni. La solitudine, il dolore, la distanza dagli altri sono ricordi che mi hanno segnata, che a volte ricorrono ancora nei miei sogni come sottofondo, ma quello che davvero rimpiango non sono i progetti mancati, ma il tempo perso.

Ho lottato contro la cefalea che mi “proteggeva” dal mondo e mi impediva il contatto con gli altri, ma che al contempo non faceva altro che tarparmi le ali nonostante il mio impellente bisogno di spiccare il volo.

Non è stato facile. Ci sono stati giorni in cui ho lasciato che il mal di testa prendesse il sopravvento, altri in cui vincevo io solo per alcune ore, altre volte, all’inizio piu rare, in cui ero io a salire sul podio.

Strano a dirsi, ma sono stati questi momenti di dolore, in cui mi sono ritrovata sola, che mi hanno insegnato ad avere più fiducia in me stessa.

Mi viene da piangere mentre scrivo queste cose perchè ora tutto mi riaffiora così bene, dolore compreso; sono stati tutti i mal di testa, gli attacchi di panico, il dolore delle mille privazioni che mi sono imposta a darmi il coraggio per recidere il cordone troppo stretto che avevo con le persone che gravitavano nella mia orbita.

Quando capisci che l’aiuto che i tuoi cari cercano di darti e la forza che cerchi di attingere da loro non bastano, allora non hai altra scelta, devi contare solo su te stessa.

Ogni volta che mi sono sentita sola, abbandonata e a volte anche ostacolata, la rabbia che avevo nei confronti del mio mondo mi ha aiutata a venir fuori.

Quante volte sono scappata dal buio della mia stanza come una furia. Ero lì distesa mentre cercavo di disintossicarmi da una giornata odiosa e continuavo a sentire le voci dei miei, i loro battibecchi. Avrei voluto gridare, gettare una pietra nel vetro della mia stanza e urlargli di smetterla perche così mi stavano devastando l’anima.

“Come fanno a non capire che sono loro a ridurmi così?”. Ma proprio questa furia che mi assaliva mi dava lo stimolo necessario per alzarmi dal letto e allontanare quel dolore fisico, specchio di quello interiore.

 

Credo che il racconto di questa esperienza possa concludersi con le parole di Lacan che ben rappresentano la funzione di ognuno di noi in questa difficile arte:L’essere dell’analista e proprio questo: farsi strumento e niente piu. E' qualcosa del quale ci si appropria per analizzarsi. E la nostra arte è di saperci prestare a questo, senza troppe idee di grandezza. Noi siamo umili strumenti”.

S DionigiMa allora è davvero la psicoanalisi la soluzione al problema della cefalea?  Ovviamente no, ma è una soluzione alla presa in carico del soggetto sofferente che giunge alla nostra osservazione. E’ la possibile applicazione del metodo psicoanalitico anche al di fuori degli àmbiti canonici, e un possibile uso dello strumento della psicoanalisi applicata.

Introdurre tali cambiamenti non è per niente facile in àmbiti che, apparentemente, non sono “adatti” a tale scopo, ma come diceva Freud in Psicoanalisi e telepatia “è proprio vero ciò che soleva aggiungere il custode di Saint-Denis al racconto del martirio del Santo. Si narra che Saint-Denis, dopo che gli fu mozzata la testa, l’abbia raccolta ed abbia camminato ancora per un buon tratto con la propria testa sul braccio. Ma a questo proposito osservava: «Dansdescaspareils, ce n’est que le premier pas qui coute.» Il resto viene da sè”.

 E non a caso San Denis, in Italiano San Dionigi, è il protettore degli emicranici!

 

     

 

 

                                                                                                  Alfonso Leo

Ospedale San Giuseppe Moscati, Div. Neurologia, Centro Cefalee, Avellino

 

 

 

 

 

 

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